Edward Hopper è un artista inclassificabile. Per quanto interprete e maggior esponente del Realismo americano, i suoi dipinti sono atemporali rappresentazioni dell’animo umano e delle domande che pendono quotidianamente sulla nostra esistenza.
Nato nella piccola cittadina di Nyack, Edward Hopper, classe 1882, è un ragazzino alto e magrissimo propenso al disegno, pensoso e avvolto dalla solitudine tanto quanto i soggetti dei suoi quadri. ll successo non gli è immediato: proprio come la produzione di una sua opera che arriva lentamente, dopo sudi, riflessioni e giornate passate ad osservare il panorama dalla casa di South Truro in Massachusetts, insieme a sua moglie e musa Josephine Verstille o “Jo” che sposa nel 1924, pittrice a sua volta, così il suo successo, giunto intorno alla quarantina d’anni.
In una dichiarazione spesso citata fatta a Lloyd Goodrich, forse spinta dal tormento di dover soddisfare come illustratore (mestiere che intraprese solo per danaro) le richieste degli editori di rappresentare “le persone che agitano le braccia”, Hopper afferma: “Forse non sono molto umano. Quello che volevo fare era per dipingere la luce del sole sulla parete di una casa.” Ciò che questo implica, è che anziché concentrarsi sugli esseri umani e sulle loro attività, Hopper era più interessato all’aspetto meditativo del mondo, che la luce del sole sul fianco di una collina, come in Road in Maine, basterebbe ad evocare. Il suo amico pittore Pène du Bois riconobbe quest’opera come un capolavoro, e cogliendo acutamente che lo stile di Hopper era di procedere per sottrazione disse: “… ma quei pali del telegrafo piantati in un paesaggio inospitale, quella strada spoglia e deserta ricevono vita e calore da un cromatismo che emana franchezza e verità. Sotto questo aspetto il pittore ha dato più di quanto non abbia tolto”.
“Nell’ombra di un uomo che cammina nel sole ci sono molti più enigmi che in tutte le religioni del passato, presente e futuro”.
Giorgio de Chirico
A differenza dei pittori a lui precedenti e contemporanei, le sue opere non hanno scopo politico né sociale, la sua realtà è tutta interiore, fatta di solitudine e psiche. La sua formazione è sì avvenuta in Francia ma ricopre un ruolo prettamente didattico e formativo. La luce è la sua ricerca artistica, ma non ha pretese caravaggesche di forti contrasti luce/ombra, tutt’altro: questa è solare e diffusa ed è parte della materia stessa. La sua realtà è come quella manzoniana, che accosta il “vero storico” al “verosimile”. Non c’è dialogo, né tantomeno presenza nella raffigurazione dei soggetti, umani o architettonici che siano. La sua realtà è legata direttamente all’immaginazione che l’elabora fino a generare le figure che abitano i suoi quadri. Egli stesso non amava essere annoverato in una così restrittiva definizione come quella di “realista”.
Certo è che la sua composizione e ciò che vi rappresenta rimane senza dubbio reale, ma a guardar meglio la sensazione di straneamento e di irrealtà, o meglio interiorità, fa perdere le redini della temporalità e della gravità. È il punto di vista registico, onnisciente, di conoscenza esteriore e interiore dell’umana solitudine che lo rende interprete della sua contemporaneità.
«Credo di non aver mai cercato di dipingere la “scena americana”; io cerco di dipingere me stesso».
In questa composizione drammatica con cinematografica vista dall’alto, una figura solitaria cammina in una strada vuota della città. Hopper realizzò questa e altre incisioni all’inizio della sua carriera, prima di dedicarsi esclusivamente alla pittura e al disegno nel 1928. L’incisione, una tecnica in cui una composizione è incisa su una lastra di metallo e poi stampata con inchiostro su carta, era particolarmente adatta al suo stile, permettendogli di usare linee forti e pulite per esaltare il mistero del soggetto scelto; qui, la città vuota di notte.
Hopper rimarrà sempre indifferente alle avanguardie artistiche che l’impasto novecentesco aveva generato e anzi affermerà a riguardo che:
“La grande arte è l’espressione visibile della vita interiore di un artista, e da questa vita interiore nascerà la sua personale visione del mondo. Nessuna abile invenzione può rimpiazzare un elemento fondamentale come l’immaginazione. Una delle debolezze di tanta pittura astratta è il tentativo di sostituire le invenzioni dell’intelletto a una concezione derivante dalla pura fantasia. La vita interiore di un uomo è un regno vasto e variegato e non riguarda solo piacevoli accordi di colore, forma e disegno”
Automat è stato esposto per la prima volta nel febbraio del 1927 in occasione dell’inaugurazione della seconda personale di Hopper, presso le Rehn Galleries di New York. Il dipinto ritrae una donna sola che fissa una tazza di caffè in un bar di notte. Il riflesso delle luci in fila si estende alle spalle della figura attraverso la finestra annerita dalla notte. Non si vede nulla di quello che le è di fronte.
La moglie di Hopper, Jo, servì da modello per la donna come in quasi tutti i dipinti raffiguranti donne. Come spesso accade nei dipinti di Hopper, sia le circostanze della donna che il suo umore sono ambigui. È ben vestita e truccata, il che potrebbe indicare che stia andando o provenga da un’occasione mondana. Ha tolto un guanto solo, il che potrebbe indicare che è distratta, che ha fretta o semplicemente che è appena entrata e non si è ancora riscaldata. Ma quest’ultima possibilità sembra improbabile a causa del piattino avanti alla tazza, potrebbe aver mangiato uno spuntino e magari voler restare lì seduta per un po’ o per sempre.
Una donna guarda da una finestra aperta qualcosa o qualcuno invisibile allo spettatore, un motivo, comune in Hopper, che oscura la relazione del soggetto con il mondo. La figura domina lo spazio strettamente tracciata nel dipinto dal pallore della sua pelle in contrasto con i colori scuri dello sfondo. La sua nudità è sensuale, ma il suo volto, la parte più identificativa dell’anatomia umana, è nascosto allo spettatore che ne è così tenuto a distanza. La luce invita ad indagare con lei nei meandri della stanze e della donna stessa ma non farà altro invece che infrangersi sulle pareti non conferendo alcun calore alla scena.
Una finestra si apre su una coppia esposta nel suo funzionamento. Nessun segno di comunicazione tra queste due figure, sebbene siano ovviamente marito e moglie. La loro reciproca alienazione è sottolineata dalla porta chiusa che occupa lo spazio tra di loro, mentre l’unica cosa che li collega visivamente è una tavola rotonda, simbolo della domesticità. L’abbigliamento dell’uomo suggerisce che è appena tornato a casa dal suo ufficio, dove è stato seduto a leggere materiale stampato tutto il giorno, solo per sedersi a casa a leggere altro materiale stampato. Ma non si sta rilassando con un giornale. Si è piegato su di esso in un atteggiamento di studio. La donna, al contrario, sembra essere in abito da sera, probabilmente ha il desiderio di uscire o semplicemente di compiacere il marito. Entrambi i motivi suggerirebbero il desiderio di impegnarsi con la vita e spezzare l’incantesimo dell’assenza. La sua mano sinistra appesa trasuda noia, e tocca con pigrizia una tastiera di piano per suonarla, ma non ancora. L’attimo è sospeso e oscilla mentre l’abito della donna si fa sempre più rosso.
Hopper usa spesso un motivo orizzontale come una strada o un binario ferroviario per costruire lo spazio all’interno dell’immagine e per sottolineare la divisione tra la scena e l’osservatore. Infatti, più lo spettatore cerca di penetrare nelle profondità di un dipinto di Hopper, più diventa impenetrabile. La superficie visibile è un groviglio di improbabilità e spostamenti illeggibili nello spazio. L’opinione di Hopper che la natura e il mondo contemporaneo fossero incoerenti, contribuì alla sua visione artistica.
La luce del sole che illumina House by the Railroad è abbastanza luminosa da gettare ombre profonde sulla maestosa dimora vittoriana, ma non a ridurne la tristezza. Il dipinto esprime il tema centrale di Edward Hopper: l’alienazione della vita moderna, che in realtà è tanto dell’uomo moderno quanto sua personale. Invece di immagini allegre e aneddotiche che celebravano l’energia e la prosperità dei ruggenti anni Venti, Hopper dipingeva la vita moderna con scene non sentimentali di isolamento fisico o psicologico. La maggior parte è ambientata in città, dove le persone spesso sembrano a disagio e fuori luogo. Altri, come House by the Railroad, raffigurano edifici solitari in paesaggi comuni. Non a caso questo dipinto ispirò Hitchcock per la sua Bates House di Psyco nel 1960. Così come Hitchcock, molti registi utilizzeranno le “inquadrature” e le suggestioni delle opere di Hopper per i loro film più celebri.
“Il tempo dimostrerà che il suo è un lavoro senza tempo, indipendente dalle varie tendenze alla moda, ma profondamente radicato nella vita contemporanea”.
Charles Burchfield
Hopper vanta una produzione vastissima di opere varie per tecnica (acquerelli, acqueforti e pittura ad olio) e soggetti: dai paesaggi marittimi, architetture, ferrovie, figure solitarie e coppie, alle immagini di donne la cui sensualità monumentale è tale da non conformarsi con il carattere timido e schivo del loro autore. Il filo che percorre tutte le tele dell’artista resta unico: “l’immediatezza del realismo e la volumetria e il rigore dell’astrazione”.
Ed eccolo qua: Nottambuli. Il quadro più emblematico dell’artista all’interno del quale possiamo far convergere tutti i tratti tipici della sua poetica. La struttura compositiva è quella della geometria tipica di Hopper, diagonali accentuate, inquadratura cinematografica, vetrine di grandi dimensioni e luce scultorea.
“Ho dipinto, forse senza saperlo, la solitudine di una grande città”.
Edward Hopper
L’immagine è stata suggerita ad Hopper da un ristorante esistente nel Greenwich Village al quale ha contrapposto il paesaggio urbano alle spalle e la vicenda dei soggetti sorpresi nella loro avventura notturna, all’interno.
I personaggi maschili ricordano vagamente dei malavitosi, mentre la donna con un’ espressione vagamente maliziosa e assente ci propone uno scenario noir, tipico dei film gangster dell’epoca. La bellezza del dipinto è data dagli infiniti scenari possibili che si aprono nell’immaginario dello spettatore sulle vicende dei personaggi. Il barista sembra l’unico ad interagire con le figure sedute al tavolo che a loro volta sembrano ignorarlo del tutto. La donna seduta accanto all’uomo pare sfiorarlo, o forse no. La vita moderna e l’immagine della “metropoli” sembrano trovare la loro definizione in questo dipinto, che sia New York o qualunque altra città nel mondo. Eppure l’osservatore continua a non coglierne il senso e la conclusione.
“Parlami. Perché non parli mai? Parla. A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa? Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”
Da “La terra desolata” di T. S. Eliot
Walter Wells ha definito la sua arte “il teatro del silenzio”. Della materia ne fa luce, dei soggetti monumenti, della geometria giuda e ed eccezionale composizione, dell’arte un’intimità latente, inarrivabile.
Definirlo un realista, pertanto, è quasi un controsenso, come d’altra parte provare ad inscriverlo in qualunque altro filone artistico. Come tutti i grandi è unico e senza tempo.
La sua arte non è rivelatrice, non svela nulla all’osservatore che anzi si chiede, che cosa sto guardando esattamente? Il riflesso di me stesso e della mia interiorità? O qualcun altro? Qualcuno che non capirò mai, cui non mi avvicinerò mai? E alla fine, non sono queste due, la medesima cosa?