Sensibile a tutto ciò che ha a che fare con l’attualità e tematiche futuristico-esistenziali, emotivo ed a tratti malinconico, Giò Schiano è un artista autodidatta dall’animo complesso che non rinuncia alla forza espressiva dei colori. Non è stato facile trattare in maniera esauriente tutte le sue idee e concetti in un’intervista: le sue opere sono in continua evoluzione e prendono grande ispirazione dalla Street Art e dall’Avanguardia americana.
Schiano è nato e cresciuto nella zona industriale di Napoli; lavora come grafico e fotografo di moda, ma è anche pittore, scultore, papà e marito.
Lo abbiamo sentito per parlare della prossima esposizione personale “Drab days and coloured minds” che si terrà l’11 dicembre a Napoli (Via A. Depretis 51), per poi ritrovarci a parlare del Gruppo Memphis, di un progetto sfumato e della capacità di rialzarsi e prendere in mano le redini della propria vita.
Giò Schiano, qual è la tua formazione?
Dopo essermi diplomato al tecnico industriale, ho capito che non era quella la mia strada e così, step by step, ha scelto di formarmi da autodidatta.
La tua principale attività è quella di grafico e fotografo di moda, ma nel tempo libero ti dedichi anche alla scultura e ad altre forme d’arte. Come è nata questa passione?
Non parlerei di attività principale o secondaria, o di passione. Tutto quel che realizzo si muove costantemente in me, è un susseguirsi di idee, di frame che si sovrappongono, si alternano, coesistono in modo equilibrato nella mia mente anche se spesso creano caos e irrequietudine. Le mie opere sono frutto di una ricerca profonda nel mio Io, spesso sono le emozioni contrastanti che non sono riuscito a tirare fuori in passato, a volte represse, altre volte sinuose o rigide, ma sempre intense.
Quando hai iniziato?
Da ragazzino facevo ritratti ai miei amici, parenti, passavo le giornate a guardare riviste d’arte e di moda quasi in modo inconsapevole. Col passare del tempo ho realizzato che potevo darmi una forma di immortalità, lasciare un segno indelebile, essere ricordato per anni.
Quando hai deciso di trasformare la tua passione in lavoro?
Intorno al 2008/9, essendo appassionato di ceramiche, in particolare collezionando opere di Ettore Sottsass, ho notato la facilità con cui si vendevano queste opere. Ispirato dal Gruppo Memphis, ho sentito la necessità di abbinare la mia passione per la ceramica ed il bisogno di integrare nuovi ricavi. Così è nato il mio primo progetto di 7 totem che ho iniziato a vendere a gallerie e collezionisti internazionali via web.
Osservando le tue opere, ho notato che sperimenti con diversi materiali, dal cemento a quelli di recupero, come ad esempio le sculture che hai elaborato reinterpretando vecchi materiali industriali di scarto. Ma è il plexiglass quello su cui ti concentri di più. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?
Effettivamente sembra un passaggio molto estremo, quasi senza senso, ma poi mi rendo conto che il mezzo usato è solo un mezzo, una delle tante strade da percorrere per esplorare il mondo.
Il riutilizzo dei materiali mi stimola molto, penso spesso alla morte e a cosa sarà di noi dopo il grande passaggio, dopo la mutazione da materia a non materia. Credo che la nostra energia, dopo aver smesso di alimentare le nostre funzioni vitali, una volta abbandonato il nostro corpo si fonda con delle altre energie, dando vita a qualcos’altro. Mi piace molto l’idea che un oggetto, un qualcosa che è servito ad altro, possa diventare ancora un’altra cosa, mutando, un po’ come le energie.
Com’è che sei passato dal recupero ai polimeri?
La scelta di utilizzare un polimero è mirata principalmente ad un fattore pratico ed economico. Lavorare la ceramica è un processo abbastanza lento e costoso, se calcoliamo tutte le fasi della realizzazione. A tal proposito ho cercato una soluzione per saltare quei lunghi processi, dalla trafila delle forme e degli stampi in gesso fino alla smaltatura, ed avere così un prototipo pronto da poter modificare facilmente o ammirare.
La risposta è arrivata intorno al 2000, quando ho lavorato per un’azienda che produceva stampe digitali, da lì la mia prima esperienza con il plexiglass. Grazie a mia moglie, già esperta del settore, ho iniziato a sperimentare questo materiale che si è rilevato estremamente versatile, veloce da lavorare ed economico.
Dove hai iniziato a vendere le tue opere?
In principio su internet, da lì ho iniziato a instaurare contatti con Gallerie e collezionisti internazionali, principalmente da Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Australia, Canada e Nuova Zelanda.
Nelle tue sculture fai spesso riferimento a tutte quelle correnti postmoderne che si sono sviluppate negli USA, come l’OP ART e l’espressionismo astratto, fino a spostarti verso l’astrattismo geometrico dei movimenti europei nati tra le due guerre, nominando De Stijl, l’Abstraction-création ed, in particolare, concentrandoti sui grandi maestri del Bauhaus, tra cui J. Albers. Cosa ti ha spinto a focalizzarti su queste espressioni artistiche piuttosto che altre? È solo una questione di gusto personale o c’è anche dell’altro?
Le mie opere rispecchiano molto i controversi messaggi della politica, dei governatori, del nuovo ordine mondiale. È come se vedessi il mio volto allo specchio imbrattato dai cupi messaggi dei media, dal caos, dalle morti dei ragazzini in Medio Oriente, ma anche dalle lacrime non versate ma represse di chi non riesce ad arrivare a fine mese. Ma poi rientro a casa la sera e guardo mio figlio, lui è il colore. Nei suoi abbracci sento bellezza della vita.
Che significato ha per te il colore?
Emozione.
Giovedì 11 dicembre si terrà la tua personale intitolata “Drab days and coloured minds” in cui esporrai le “Factories Flat“, le tue ultime sculture in plexiglass. Da dove nasce questo progetto e a cosa ti sei ispirato?
Le “Factories Flat” sono un chiaro riferimento alle fabbriche della zona industriale di Napoli dove sono cresciuto. Le ho sempre viste imponenti, grigie, rumorose, inquietanti. È un piacere rivederle in questa forma flat, sottili, leggere e colorate.
Il titolo “Drab days and coloured minds“, giorni grigi e menti colorate, sembra celare un significato profondo. La tua ricerca artistica per questo nuovo progetto dove affonda le sue origini?
Drab Days è il presente, è la fuliggine delle metropoli, questo senso di vuoto costante, una notte senza stelle, il non poter immaginare un futuro sereno, i piedi freddi, l’angiosarcoma di mio padre, la paura di cadere da un grattacielo. È quando nel sogno non riesci a muoverti, a scappare, a ritrovare la strada di casa.
Coloured mids è il sole che ci riscalda, che genera un arcobaleno mentre diluvia, è il sorriso di mio figlio, è sapere di farcela, è un’idea, un percorso fatto, è meravigliarsi.
Parli spesso di tuo figlio. Che influenza ha avuto sul tuo lavoro?
Dire che sono nato con lui è riduttivo.
Stai già pensando ad una nuova serie di sculture, o hai altri progetti per il futuro?
Sì, certo. Progetti tanti, ma poco tempo per realizzarli. Sto progettando dei “Box Chance” per un progetto collettivo che si svilupperà a febbraio sul concetto dei viaggiatori fantastici. Sarà una scatola in forex stampato a misura d’uomo con all’interno un monitor. Una volta entrati nella scatola, come in un confessionale, si può vivere la sensazione di scegliere di cambiare, di essere una persona nuova, di modificarti interiormente, di tornare indietro e riparare i vecchi errori, ma anche cambiare solamente città, luogo, stile di vita, mestiere.
Dal 2009, Giò Schiano espone le sue opere in gallerie di tutto il mondo, tra cui Zurigo, Belgio, Parigi, Stati Uniti e Londra; la sua prima esposizione personale è stata nel 2011 alla Galleria The Room a Roma.