Cogliere il dettaglio come scintilla della differenza nella propria fugacità, è ciò a cui tende la ricerca estetica di Simone Pellegrini. Nella tensione a raggiungere ciò che resta irraggiungibile e irrappresentabile l’artista attraversa e sconvolge i sistemi e le solide categorie su cui il moderno occidente ha costruito la propria identità, facendone emergere il substrato più arcaico e magmatico.
I corpi non sono mai rappresentati nella loro interezza, ma sempre scomposti e ricomposti secondo un rigoroso ordinamento che non ha mai nulla di umano. I soggetti smembrati perdono ogni traccia di individualità. Nei riti dionisiaci, il capro sacrificale, immagine di Dioniso, veniva fatto a pezzi a mani nude. Lo sparagmòs, che negava nella maniera più cruenta possibile l’individualità del singolo, era il rito necessario all’affermazione della divinità. Il biòs, la vita finita e individuale, deve soccombere affinché possa affermarsi l’eterno ciclo della zoè, la vita universale.
Il rito dello smembramento non è soltanto evocato nella rappresentazione, ma è un momento fondamentale della creazione stessa dell’opera di Simone Pellegrini. Prima di intervenirvi graficamente, il supporto in carta è strappato in pezzi e ricomposto. Le figure non sono realizzate con un segno continuo e per campiture omogenee di colore, ma stampate, trasferite sul supporto da altri pezzi di carta utilizzati come matrici. La stessa realizzazione dell’opera è scandita dall’intervallarsi di rotture traumatiche, distacchi e ricomposizioni.
Elementi umani, vegetali e ornamentali, seguendo il travolgente flusso vitale si dispongono in modo da comporre un paesaggio, che appare però come una mappatura di anatomie e organi interni. I rossi sanguigni e le terre che colorano i lavori di Simone Pellegrini, rimandano chiaramente ad un organico residuale, ad un vitalismo drammatico e viscerale.
I continui movimenti oscillatori che confondono piani solitamente tenuti fermamente distinti – universale e particolare, olistico e individuale, interiore ed esteriore – oltre a mostrare tutta la fragilità di categorie considerate incontestabilmente salde, inducono la vertigine dell’ebbrezza che spinge al di là, oltre la ridicola certezza del dato acquisito, in un movimento di avvicinamento costante a qualcosa che sfugge continuamente ogni qual volta ci si avventi per afferrarlo. Nella tensione a raggiungerlo, la realtà rigidamente organizzata e amministrata viene incessantemente scossa e sottoposta a stress. Si creano crepe sempre più profonde sulla superficie coerente e uniforme. Crepe che diventano spiragli di possibilità, che lasciano intravedere una alterità ferocemente repressa e costantemente negata.