È possibile essere un rivoluzionario e amare i fiori?
La personale della giovane Camille Henrot ospitata al Palais de Tokio di Parigi durante la Triennale Intense Proximity nel 2012 pone allo spettatore, attraverso il proprio titolo, una domanda che suscita una riflessione ancor prima di essere visitata.
L’ esposizione consiste nella traduzione dei propri libri in sculture floreali realizzate secondo l’ antica tradizione orientale dell’ Ikebana: ad ogni titolo o citazione è associato un fiore scelto in base alle interpretazioni che potevano suscitarne il nome latino o quello comune o anche il significato legato al linguaggio dei fiori.
L’ intento dell’artista è quello di creare un filo conduttore tra le proprietà curative dei libri ̶ sul quale argomento le autrici Ella Berthoud e Susan Elderkin hanno recentemente scritto un libro, edito in Italia da Sellerio col titolo “Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno” ̶ e quelle associate alla pratica dell’ Ikebana, l’arte delle composizioni floreali. Nel progetto, il potere taumaturgico del fiore è tanto più enfatizzato in quanto elemento stagionale, che crea continuità in un’era di temporalità interrotta e quindi “antidoto all’ansietà del vivere nella storia”: il fiore come simbolo di rinnovazione mentre aspettiamo un cambiamento, da cui il titolo dell’opera.
Le sculture, disposte con precisione in base alla propria tassonomia o ad altre categorie assegnate dall’artista, costruiscono un ambiente ordinato, sereno, un “ecosistema” al tempo stesso variegato e olistico, come lo può essere l’immagine di una libreria, in cui ogni titolo è un libro a sé stante e contemporaneamente parte di un’immagine d’insieme che è, appunto, la libreria.
In quella sottoforma di Ikebana dell’autrice ritroviamo numerosi riferimenti ad antropologia, archeologia, sociologia, ambiti cui la Henrot si avvicina con pochi formalismi e piuttosto con lo stesso approccio curioso dell’amatore o di quello che gli antropologi definiscono come “culto del cargo”, espressione nata per definire inizialmente quelle particolari forme di culto nate tra le popolazioni del Pacifico in seguito al contatto con le popolazioni di bianchi più tecnologicamente avanzate e passata poi ad indicare quei fenomeni di acquisizione di elementi di altre civiltà ̶ perlopiù orientali ̶ ma con un’ incomprensione o uno scambio di significato rispetto a quello originale.
Gli stessi temi, cari alla poetica dell’artista, fanno da struttura portante della video-installazione con la quale l’appena 35enne Camille ha vinto il leone d’argento all’ ultima Biennale d’Arte di Venezia, Grosse Fatigue, realizzata grazie allo Smithsonian Artist Research Fellowship, un programma di borsa di studio e residenza di un anno cui ha preso parte dopo aver dedicato i due interi anni precedenti alla sola realizzazione di Ikebana. Un pizzico d’ossessione, forse, certamente un valore aggiunto.