Filtri per il caffè, usati, macchiati, quindi disegnati, colorati, ricoperti di poesie, bruciati oppure assemblati a comporre forme nuove, vestiti persino. Vecchie lettere cristallizzate nella resina come insetti primordiali, al riparo dal tempo e dal disfacimento. Bustine di tè affiancate, come le tessere di un mosaico, a comporre con la moltitudine una monumentalità che sommessamente il singolo rifiuta.
Da questi materiali poveri, consumati e riutilizzati, si può capire molto dell’universo di Sophia Preka: un universo, quello di questa giovane artista greca, che ruota attorno al tema del tempo, centro di una ricerca artistica essenziale, esistenziale, a tratti angosciata.
L’inquietudine, l’afflizione: secondo Sophia l’arte non deve distaccarsi dai problemi contemporanei, non deve essere domata al fine di assicurarne l’auto-conservazione. L’arte, piuttosto, deve misurarsi con la provvisorietà, la fragilità e la vulnerabilità degli esseri viventi, con la temporaneità che porta inevitabilmente al decadimento.
L’arte deve essere ricordo, memoria che include la conoscenza del passato, la coscienza del presente e la rivendicazione del futuro così come la sua perdita, il vuoto.
Per questo motivo gli oggetti di Sophia Preka sono la completa ridefinizione di qualcosa di passato, di decomposto, di usato, finito: sono la manifestazione di un significato latente, reso palese attraverso un alfabeto artistico dotato di un carattere simbolico distinto. Questi oggetti, trasformati e rigenerati, ci parlano chiaramente, comunicano con la nostra stessa inesorabile precarietà ed è forse per questo motivo che sono così immediatamente comprensibili, categorici ed inquietanti.