‘Light is not so much something that reveals as it is itself the revelation’
Pochi artisti come James Turrell hanno saputo dedicare la propria opera a una devota e concentrata ricerca sulla percezione e sugli strumenti attraverso i quali l’uomo comprende lo spazio, le dimensioni, il colore e l’infinito. Pochi altri hanno saputo occuparsi della luce intesa come fatto materico, come “cosa” effettiva, sostanza isolata e quasi tattile, attivamente interagente con i nostri sensi dai quali discende una percezione dell’opera diversa per ciascuno.
Il problema della soggettività nell’arte può essere rintracciato nelle problematiche sollevate da Courbet e sviluppate dagli impressionisti in modo fondamentale, per i quali la nostra percezione della realtà è dipendente dal medium della luce, che si materializza e diventa essa stessa ‘realtà’. Questo slittamento di prospettiva è lo stesso che Goethe arriva a rivendicare con la propria teoria del colore, in opposizione a quella formulata da Newton, basata su qualità esternamente misurabili invece che su esperienze e osservazioni dirette come per il tedesco. Turrell riprende questa serie di tematiche e, attraverso la visione che gli è propria, le rielabora in un percorso personale di fusione con altre discipline e sensibilità, in una ricerca affine per certi versi a quella di altri artisti come Albers, Rothko, Reinhardt e Newman ma senza mai concretamente lavorare con della materia, per quanto impalpabile possa essere la pittura.
Si tratta di una vacuità intimamente diversa dalle ricerche del Minimalismo degli anni ’60 da cui la ricerca di Turrell prende avvio, un approccio che elimina ogni oggetto dal fare artistico per restituirci un ‘nulla’ costituito solo da luce e percezione, dalla percezione materiale dell’immateriale. L’immateriale e l’infinito sono i poli tra cui si muove la ricerca di questo artista, che affronta questi temi con scrupolo scientifico per restituircene la pensabilità e l’esperienza. Quindi, come nei Ganzfeld l’immaterialità della sorgente luminosa si concretizza in spazio e in materia in cui l’esperienza dello spettatore è immersa, nel Roden Crater, il monumentale progetto avviato nel 1974, l’infinita vastità del cosmo viene compressa e sintetizzata per essere compresa nello spazio tangibile dell’esperienza umana.
Turrell si sposta su un’altra dimensione, dallo spazio limitato della tela alle vastità eteree dell’atmosfera, al blu profondo del cielo piu’ puro che il padre ingegnere aeronautico gli insegnò ad amare dall’alto di un aeroplano. La visione diventa per Turrell un fatto interno, un meccanismo mediato dall’occhio che consiste in una comprensione immediata filtrata da tutti i sensi e non dissimile dalla visione quacchera di ‘luce interiore’ ereditata dalla madre. E’ infatti così che la percezione in Turrell si trasforma in atto attivo e quasi spirituale, mettendo lo spettatore al centro della propria opera, come necessario termine secondo in questa relazione immateriale che si avvicina a un muto dialogo o alle forme orientali di meditazione. Non è infatti esagerato pensare a Roden Crater in analogia all’axis mundi, a quel Monte Meru del Buddhismo che connetteva terra e cielo, senza la volontà di conquistarlo e contenerlo come nel Cenotafio di Newton di Boullée, ma consegnandolo a noi osservatori in tutta la sua immaterialità sconfinata, di cui sentirci parte.