Lucrezia Calabrò, classe 1990, è la giovanissima assistente curatrice del team curatoriale di Shit and Die e curatrice del blog della mostra. Nonostante sia solo agli inizi della sua carriera, vanta già collaborazioni e attività di tutto prestigio.
L’abbiamo incontrata a distanza di quasi un mese dall’apertura della mostra.
Sembra che la tua carriera sia fulminante. Dalla laurea ad assistente curatrice di Cattelan in soli due anni. Mi viene da chiederti: come ci sei riuscita?
Devo ancora rendermene conto anch’io! La risposta più banale è che ho avuto la fortuna di lavorare sempre a progetti in cui credevo, e ovviamente l’entusiasmo e la convinzione in quello che si fa sono fondamentali in qualsiasi professione (almeno quanto gli incontri fortuiti e delle scarpe comode!).
Dando un’occhiata ai progetti a cui hai lavorato A Linking Park, Soluzione di Viaggio Inibita, sembra che la tua idea curatoriale sia rivolta tutta alla sperimentazione e a far saltare le “categorie classiche” della curatela. In questo modo il curatore “invade” lo spazio che era solitamente proprio dell’artista? Qual è secondo te il ruolo del curatore all’interno del processo creativo ed espositivo?
La mia visione ideale del curatore coincide col ruolo di “The Wolf” in Pulp Fiction: “I’m Winston Wolfe, I solve problems.” – che in questo caso vanno di solito dalla teoria pura fino al trapano avvitatore, ma non escluderei il far sparire cadaveri… Battute a parte, ciò che mi interessa di quel mestiere che ci ostiniamo a chiamare curatela sono le sue potenzialità come “scienza minore” e come pratica sempre variabile e un po’ tuttologa che si insinua negli interstizi lasciati distrattamente sia dall’istituzione, totalmente assorbita nel sistema dell’arte, che dall’artista, la cui opera finisce spesso neutralizzata dal semplice fatto di essere considerata solo come tale. Il ruolo del curatore viene dibattuto oggi fino all’esasperazione, ma sono convinta che sia invece (o forse proprio per questo) ancora sufficientemente confuso da potersi permettere una carica corrosiva, che proceda anarchicamente rispetto alle categorie che di volta in volta gli vengono imposte.
Alcune delle realtà con cui collabori e hai collaborato, Toilet Paper, Artists Space, Shit and Die, sono realtà artistiche di successo, ma sicuramente sui generis rispetto al sistema dell’arte “tradizionale”. Pensi sia possibile riuscire ad essere dei curatori “critici” del sistema e del mercato dell’arte contemporanea? E in che modo?
Penso che tutto si riduca a una questione di strategia. La coerenza totale nelle questioni di principio è spesso improduttiva, credo abbia più senso impegnarsi per restare culturalmente indipendenti in ogni contesto in cui ci si viene a trovare, cercando piuttosto di modificarlo dall’interno: il tipo di “guerriglia concettuale” più onesto ed efficace. Nello specifico, arte contemporanea e attivismo hanno ormai una relazione così stabile che comincia, oggi, a venire storicizzata (sono addirittura stati fondati i primi corsi di laurea sul tema). La portata politica dell’arte contemporanea sta iniziando a venire accolta come inevitabile, e credo che lo scenario sia pronto perché la distanza tra estetica e etica si faccia sempre più labile, come auspica John Jordan. Realtà come quella di Artists Space saranno senza dubbio le capostipiti di questo slittamento, e dalla loro eredità abbiamo ancora tanto da imparare!
Come si svolge la tua collaborazione presso Artists Space? Puoi parlarci dell’ultimo progetto a cui hai partecipato?
Sono stata “curatorial intern” ad Artists Space per 5 mesi a New York. L’ultimo progetto a cui ho preso parte non era una mostra ma un evento legato alla pubblicazione di “Schizo-Culture: The Book / The Event”. Nel 1975, il collettivo della rivista Semiotext(e), guidato da Sylvère Lotringer, organizzò un simposio di tre giorni alla Columbia University di New York, in cui filosofi del calibro di Foucault, Lyotard, Deleuze e Guattari incontrarono la scena artistica newyorkese dell’epoca, innescando un mix esplosivo di post-strutturalismo e controcultura degli anni Sessanta che sfociò in dibattiti sulla società del controllo davvero epici, talvolta così accesi da rischiare la rissa. In occasione della pubblicazione inedita degli interventi avvenuti durante il simposio, e della riedizione del numero omonimo della rivista, Artists Space e Semiotext(e) hanno organizzato una serata con interventi di coloro che parteciparono nel 1975 e una piccola esposizione di materiali dall’archivio di Semiotext(e). Io, tra le altre cose, mi sono occupata di esplorare l’archivio, raccogliere e selezionare i materiali da allestire e gli audio originali della conferenza. Potersi intrufolare nel cuore di momenti che hanno fatto la storia è stato impagabile, come lo è stata la sensazione di essere tra i primi ad ascoltare quelle registrazioni dopo anni, avendo poi il privilegio di farlo insieme allo staff di Artists Space e a Lotringer stesso!
In che modo si è svolta la tua collaborazione alla realizzazione di Shit and Die?
Per Shit and Die sto lavorando come assistente curatrice: ho seguito fin da quest’estate il conturbante viaggio di Myriam, Marta e Maurizio tra le collezioni, le storie e personaggi torinesi, dalla fase di ricerca iniziale fino al posizionamento dell’ultima didascalia – e adesso alla gestione della mostra avviata.
Far parte di uno staff relativamente ristretto mi ha permesso di occuparmi di tantissime cose, dalla produzione ai rapporti con gli artisti, alla pubblicazione, a tutti i dettagli dell’allestimento e alle questioni “registrariali” e di coordinamento: sono stati dei mesi intensi, ho imparato davvero tanto e lavorare con il mitico trio (e con le amazzoni di Artissima) è stato divertentissimo. Poi ovviamente c’è il mio piccolo contributo ufficiale al progetto, che è il tumblr della mostra (shitndie.tumblr.com).
A quasi un mese dall’inaugurazione della mostra è stato detto e scritto di tutto: dai tentativi di censura, alla esaltazione come evento storico. A questo punto vorrei sapere qual è il tuo giudizio sulla mostra.
Penso ci si aspettasse qualcosa di controverso, una boutade cattelanesca, e invece tutti sono stati un po’ spiazzati dal trovarsi di fronte a una mostra molto seria e complessa. Temi davvero “in” oggi sia nell’arte contemporanea che nell’immaginario pop, come il post-colonial e il femminismo delle origini o il rapporto tra curatore e artista, vengono rivoltati come un calzino, affondati e allo stesso tempo ignorati con grande nonchalance, con lo spirito dissacrante che si ritrova anche nella pubblicazione, col saggio “How to write about Africa”. Se Shit and Die si guadagnerà un posto nella storia delle mostre penso che lo farà, paradossalmente, proprio per il fatto di non essersi posta come una riflessione sul metodo o uno statement sulla curatela, ma piuttosto come una serie di storie, immagini e oggetti che semplicemente valeva la pena di raccontare – e che hanno costruito (ma sono faziosa, ovviamente) una mostra coi controfiocchi.