– Switch to page 2 for english version –
Da Beethoven a Roland Barthes, dagli affreschi di Pietro Cavallini all’arte giapponese del periodo Edo, passando per psicanalisi, erotismo e botanica. I campi in cui Jorinde Voigt conduce la sua rigorosa ricerca estetica sembrano non avere limiti tematici o disciplinari. La sua ricerca prende forma seguendo una dinamica espansiva, che include e mette in relazione elementi solitamente considerati sconnessi e marginali.
Il filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehelen definisce l’essere umano come un animale fisiologicamente carente. Sprovvisti di filtri innati che permettano di selezionare istintivamente gli impulsi interni ed sterni, gli uomini sono costretti a doverli dominare in maniera cosciente e razionale, per evitare di essere completamente travolti da un flusso incontrollato di impressioni. Strumento indispensabile per questo processo è il linguaggio, un sistema di segni e suoni che, mediante simboli concetti e categorie, permette agli uomini di semplificare e gestire la realtà, escludendone gli aspetti inutili o addirittura dannosi alla propria sopravvivenza. È evidentemente un processo estremamente violento e traumatico, tuttavia condizione necessaria di ogni forma di civiltà. A distanza di millenni, accade peró che qualcuno cerchi di riconquistare quella complessità del reale a cui gli uomini avevano rinunciato nella notte dei tempi, proprio per mezzo del linguaggio.
Il lavoro di Jorinde Voigt è sicuramente da collocare all’interno di questa ambiziosa impresa, alla ricerca di un caratere “letterario” della sua opera. Abbiamo incontrato l’artista tedesca nel suo studio berlinese.
Gran parte del fascino suscitato dai suoi lavori risiede nell’immediata consapevolezza di trovarsi di fronte ad un raffinato sistema linguistico, così la prima domanda che le pongo riguarda l’origine di questo complesso codice di segni. Sin da quanto ha cominciato a disegnare, spiega, il suo intento è sempre stato quello di rappresentare graficamente i soggetti scelti, includendo la varietà di elementi che li determinano e le relazioni tra questi. È un processo che richiede un complesso sistema di segni e di algoritmi, atti a codificare gli elementi da rappresentare e a sistemarli in un ordine dinamico. Ad esempio, per la realizzazione della serie Ludwig van Beethoven Sonatas 1-32, Jorinde Voigt ha lavorato a lungo alla creazione di un sistema che potesse rappresentare oggettivamente “lo spettro delle emozioni e del carico esperienziale contenuto nelle sonate di Beethoven”.
Ci si è spesso affidati a sempre più sofisticati codici e sistemi matematici col fine di evitare il banale soggettivismo e la contingenza del materiale. Basti pensare agli sviluppi della musica atonale, evolutasi in dodecafonia, poi in musica seriale e alla fine in seriale integrale. In queste evoluzioni i parametri da rispettare diventano sempre più rigidi, trasformando un originale principio di emancipazione in un principio di coercizione ancora più severo.
Tuttavia, penna alla mano, Jorinde mostra come anche all’interno del più rigido dei sistemi di rappresentazione, c’è sempre comunque lo spazio sufficiente per esercitare una certa arbitrarietà. Ad esempio, una volta che il codice e la posizione dei segni sono stati definiti, la linea che dovrebbe connetterli può seguire infinite direzioni. Tuttavia, nella sua opera, anche gli elementi più arbitrari appaiono con la stessa necessità degli altri, come il risultato di un rigoroso processo di mimesi.
Dopo aver parlato a lungo di linee, codici e algoritmi, sembra che le coordinate del suo lavoro siano saldamente definite, così da impedire ogni ulteriore evoluzione. Ma dall’altra parte dello studio, appoggiati alla parete, ci sono altri lavori, in cui il colore ha fatto tutta la sua energica apparizione. Come è stato possibile in lavori dominati da tanto rigore? “Ovviamente”, risponde, “non potevo permettermi di utilizzare il colore soltanto per ragioni estetiche, così ho dovuto trovare un modo per creare una precisa grammatica del colore”. Il colore era stato già usato in lavori precedenti, ma sempre in maniera molto circoscritta. Il punto di svolta si ha con Botanic Code, il risultato di una ricerca sui valori cromatici dei giardini botanici di diverse città del mondo, realizzata attraverso l’utilizzo di algoritmi e parametri che definiscono determinate aree di colore da trasferire su tubi alluminio.
Il lavoro di Jorinde Voigt è l’instancabile ricerca di un linguaggio e forme espressive capaci di produrre lo spettro della complessità e il dinamismo del reale. Qualsiasi soggetto è rappresentato tenendo conto della moltitudine degli aspetti che contribuiscono a determinarlo. Sia per un testo filosofico, che per una canzone pop, anche il ruolo di chi interagisce con questi e la situazione in cui ciò avviene, sono estremamente significativi. Questi aspetti possono sembrare irrilevanti in un ottica funzionale, ma diventano fondamentali se si considera il loro valore esperienziale.
Tuttavia, quando la rappresentazione tende ad afferrare ogni aspetto del reale, questa inevitabilmente collassa. All’interno della fortissima tensione espressiva si insinua la consapevolezza della propria irrealizzabilità. Alcuni lavori recenti di Jorinde Voigt si ispirano agli angeli affrescati da Pietro Cavallini in Santa Cecilia in Trastevere a Roma. Il tema del volo è costantemente presente nella sua opera, qui peró Jorinde Voigt affronta l’immagine che per secoli ha rappresentato l’ideale di assoluta perfezione e il sogno proibito di volare. Tuttavia, le piume solitamente bianche si colorano di nero. Quell’ideale di assoluta bellezza e libertà è pervaso dalla cupa consapevolezza del suo inevitabile fallimento. Eppure fermarsi è impossibile e tornare indietro non è concesso. Lungi dall’arrestare questo intenso processo di rappresentazione, il negativo aggiunge un elemento di ulteriore verità al lavoro dell’artista tedesca.